Cherson: una porta sulla steppa tra Bizantini e Genovesi
La città nel contesto della Crimea
Cherson, situata nella parte sud occidentale della Crimea a 30 chilometri dalla foce del Dnepr, fu per secoli il fulcro del potere bizantino nell’area settentrionale del mar Nero. La città ebbe un ruolo di importanza militare sotto l’imperatore Teofilo il quale ne fece la capitale di un tema (θέμα Χερσῶνος), definito τὰ κλίματα, che riuniva i territori strategici per la difesa di Bisanzio e dei territori dei cazari, alleati dell’impero (833). Un forte interesse per il destino di quest’area si riaccese nel XII secolo, quando la dinastia comnena impiegò i propri sforzi per restaurarvi il dominio imperiale che vi era progressivamente scemato.
Nel corso del medioevo nei testi greci e latini la Penisola, di cui Cherson era uno dei principali centri, venne indicata con diverse denominazioni derivate dalle popolazioni della steppa che vi si erano insediate: Gothia, riconducibile alla presenza dei residui del popolo goto nei passi delle montagne a est di Cherson; Cazaria (Gazaria), in riferimento ai cazari che avevano abitato i territori della Meotide e della Crimea; e infine Rhosia, in quanto la penisola è parte della più vasta regione della steppa dove giungeva il prestigio dell’impero da cui i capi russi ricevevano il titolo di arconte. Solo con l’affermazione dell’impero tataro-mongolo la Tauride dell’antichità assunse il nome attuale.
I traffici tra Cherson e la steppa: importanza della produzione artigianale
L’impero di Bisanzio vi esercitava un potere generico e formale, ancorato tuttavia a concreti punti di interesse, che si mantennero tali anche quando i cumani (popolo di nomadi guerrieri di lingua turca) intorno al 1167 incominciarono a dominare le vie fluviali e a occupare l’intera area. Le fonti bizantine e le testimonianze degli osservatori esterni, quali i viaggiatori arabi dal VII al X secolo (in particolare Ibn Khurd Habid, Ibn Rustah, Al-Idrīsī), evidenziate da Jonathan Shepard attestano il significato economico delle sponde settentrionali del mar Nero. È noto che i popoli della steppa, khazari, peceneghi, ungheresi e infine cumani, commerciavano le loro merci, compresi gli schiavi, e le barattavano con oggetti di lusso, importati o fabbricati nella stessa Cherson. I reperti archeologici testimoniano la produzione di anfore e oggetti in metallo e la lavorazione del pesce salato. Ancora tardivamente (XIII-XIV secolo) è stata evidenziata l’esistenza di una produzione locale di ceramica e mattonelle, oggetti in osso e in vetro. Questi manufatti consentono di postulare la presenza di un ceto produttivo vario costituito da mercanti, carpentieri, muratori, fabbri, pescatori, preti, fornai, locandieri e, nella zona portuale, la frequentazione assidua di stranieri, italiani, russi, armeni, arabi e tatari.
Prodotti locali e navigazione
Ai bizantini in particolare interessava la possibilità di importare il pesce salato, fondamentale per l’alimentazione della capitale, e la nafta dello stretto di Kerch, sostanza base per la fabbricazione del fuoco greco. Nel X secolo si potevano contare molte sorgenti di questa sostanza nei dintorni della città di Tmutoraka, diverse erano ubicate nei territori abitati dagli zichi (Zichia), ovvero circassi: nel luogo di Pagi ne esistevano nove che emettevano oli di diversi colori, giallo, rosso, nerastro, inoltre una era nel sito definito Papagi, un’altra nel villaggio di Chamouch, tutte località distanti dal mare un giorno di viaggio a cavallo; altre due scaturivano rispettivamente nelle province orientali di Derzene (oggi Têrçan, città turca in Anatolia) e di Tziliapert, ricordata da Costantino Porfirogenito[1].
Ciò che caratterizza Cherson in questo periodo è anche l’impegno dei suoi abitanti nelle attività mercantili e nei trasporti marittimi. Le navi degli abitanti della città erano i motori del carrying trade per il grano e il vino da una sponda all’altra del mar Nero. Chersoniti con le loro navi mercantili si recavano lungo le coste anatoliche ed erano tenuti a raggiungere i territori dell’impero per portarvi la cera e le pelli procurate loro dai peceneghi, altro popolo seminomade di lingua turca. Il rilievo economico del “sistema Mar Nero”, incentrato su Cherson, è ben chiaro all’imperatore del secolo X quando indica al figlio Romano II i provvedimenti da assumere nei confronti degli abitanti della città in caso di ribellione. Le loro navi dovevano essere confiscate con il carico; marinai e passeggeri avrebbero subito l’arresto e l’imprigionamento non solo a Costantinopoli, ma anche nelle regioni pontiche meridionali; si sarebbe applicato inoltre il blocco alle importazioni di grano e vino nella città ribelle[2].
La Chiesa latina e i mercanti italiani
Per il periodo successivo, quando Cherson si trovava stretta tra i signori greci di Lo Teodoro, l’influenza degli imperatori di Trebisonda, le pretese genovesi e la progressiva dipendenza dai signori tatari, Natalija Bogdanova ha indagato la possibilità che all’intervento missionario della Chiesa latina nella città, fin dai primi decenni del XIV secolo sede della cattedrale latina di San Clemente e polo dell’attività missionaria dei frati predicatori, siano corrisposti interesse e frequentazione da parte dei mercanti italiani. L’assenza di documenti notarili di tipo commerciale impone qualche riserva sull’effettivo e sostanziale ruolo mercantile della città in rapporto agli italiani, nonostante le fonti perlopiù cancelleresche, piuttosto discontinue, raccolte dalla studiosa rivelino che il porto era talvolta frequentato da mercanti occidentali, che vi erano istituiti consoli genovesi, che le cocche veneziane potevano avere il permesso di farvi scalo, probabilmente in ragione della continuità dell’esportazione del sale locale e delle merci della regione, reperibili qui proprio come a Cembalo e a Caffa.
Rivalità tra genovesi, greci e veneziani
Intorno a Cherson ruotava una popolazione composita con presenze greche, armene, islamiche, gote e alane e la città aveva dimostrato la sua propensione ad allearsi con il signore di Lo Teodoro, alleato dei veneziani, come si verificò al tempo della ribellione di Cembalo (oggi Balaklava), quando i genovesi organizzarono la spedizione di Carlo Lomellino per punire i rivoltosi (1434). Inoltre con la sua popolazione varia la città poteva rappresentare una minaccia per i genovesi e doveva essere tenuta sotto controllo, avendo di per sé un’importanza strategica di un certo significato. La presenza di un buon porto la rendeva facilmente raggiungibile e ne faceva un’alternativa e una possibile via di fuga per i genovesi, dal momento che le questioni con il dominus di Lo Teodoro erano ancora irrisolte nel 1458. I genovesi ritenevano che questo signore con i suoi fratelli occupasse indebitamente la Gothia, ad urbem Caphe pertinentem, e che senza rispetto per i diritti e i privilegi di Caffa lasciasse utilizzare il porto di Calamita a detrimento delle entrate doganali della loro città et ibidem nauigia onerare et exonerare in grauem jacturam vectigalium Caphe [3] . Probabilmente per questo motivo essi non abbandonarono subito Cherson al suo destino come avrebbero fatto con una località di minore interesse, e solo nel 1472 i Protettori del Banco di San Giorgio si decisero di abbatterne le mura per evitare l’occupazione turca di quella fortezza, ormai svuotata dei suoi abitanti.
Fonti edite
Vigna A., Codice diplomatico delle colonie tauro-liguri durante la signoria dell’Ufficio di San Giorgio (MCCCCLIII-MCCCCLXXV), in «Atti della Società Ligure di Storia Patria», VI, 1868, 815 (doc. 377).
Constatine Porphyrogenitus, De administrando imperio, a cura di Gy. Moravcsik edd. Gy Moravcsik – R.J.H. Jenkins, Washington 1967.
Bibliografia
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