Il disegno di Cristoforo Colombo

di Gabriella Airaldi
Ridolfo del Ghirlandaio (1483-1561)Genova, Collezione del Museo Navale di Pegli

Il filo rosso che può condurci alla genesi del disegno colombiano, ciò che rende tutto fame di oro e volontà di percorrere le vie del mondo, passa certamente per le molteplici, secolari esperienze, che i genovesi hanno vissuto tra Oriente e Occidente e per quelle dei portoghesi, da sempre impegnati sulla rotte delle Indie. Passa per i suoi viaggi precedenti, che lo hanno condotto dai mari brumosi del nord alle calde rotte africane fino all’isola di Chio, profumata del lentisco ancora monopolio dei genovesi. Per lui, come sempre è accaduto ai suoi conterranei, ciascuno dei luoghi vissuti rappresenta solo una tappa nella conoscenza del mondo. Chio allora, ultimo baluardo genovese nel Mediterraneo orientale, è soltanto uno degli anelli di una catena più antica e più lunga; di un itinerario che ai tempi di Colombo, più non si percorre, ma che, due secoli prima, era battuto “il dì e la notte”, come aveva raccontato un altro uomo d’affari, Francesco di Balduccio Pegolotti, quando − tra Due e Trecento − genovesi e veneziani si avvicendavano negli scambi con il grande impero mongolo, quando la leggenda del prete Gianni sembrava prender corpo nel battesimo ricevuto da Giorgio, re degli Ooguti. Certamente allora il Gran Khan Kubilai, immerso nelle bellezze e nelle ricchezze della sua capitale estiva, la hangdu-Xanadu, mito inestinguibile anche per gli Occidentali, poteva davvero essere dipinto dal veneziano (o forse dalla penna più ardita del romanziere pisano Rustichello) come un “principe perfetto”, attorniato da funzionari di varie culture ed etnie, tra cui Marco Polo stesso. E i più taciturni genovesi, nel loro fin troppo silenzioso, ma ben dimostrato, muovere tra Oriente e Occidente, sceglievano anch’essi di vivere in quelle lontane plaghe e spesso vi morivano, come i due ragazzi Ilioni, i cui nomi restano impressi nelle lapidi orientalizzanti di Yang Chou.

Poi tutto era cambiato. I frantumi del grande impero mongolo e l’espansione turca avevano rafforzato le esperienze iberiche e anche quelle atlantiche, in cui già da tempo i genovesi erano attivi, tanto che, da quasi due secoli, le isole oceaniche e le coste dell’Africa occidentale erano punteggiate di loro presenze. Il già ricordato documento Assereto, forse la più famosa tra le testimonianze genovesi che riguardano Colombo, ne fornisce una concreta sintesi, dimostrando quanto la realtà atlantica gli fosse familiare.

I sogni di Colombo, però, sono altrove. Quelli restano − e tali sarebbero rimasti nell’immaginario europeo − ben radicati in un Oriente lontano, ricco, luminoso di sete, di ori, di perle. E’ di questo Oriente che ci si vuole riappropriare, anche quando la cartografia abbandona la tradizione per inoltrarsi in più precise certezze. Per questo il Milione dunque resta ancora lì, con la sua dominante centralità culturale, a certificare quell’aspirazione più che la concreta realtà. Lo suggerisce la natura di un testo complesso ed ambiguo, dove ad un nocciolo di natura economica, probabilmente incentrato su un manuale di mercatura e “memoria” di un mercante per altri mercanti, è stato sovrapposto un involucro di meraviglie, in cui visto e non visto si mescolano senza sosta. Questo è il Milione, fonte inesauribile di ogni operazione culturale, dal famoso Atlante Catalano del 1375, al Diario e alle relazioni colombiane.

Dunque non stupisce che l’Ammiraglio del Mare Oceano ne chieda una copia a John Day. Il testo gli arriva, stampato ad Anversa nel 1485 e oggi conservato, con altri libri suoi, nella Biblioteca Colombiana di Siviglia e postillato dalla mano dell’Ammiraglio (ma non solo da lui), ha fatto congetturare una sua conoscenza diretta del Milione solo a partire da quel momento; da quando, cioè, incomincia ad accumulare prove a sostegno delle proprie tesi, ormai apertamente combattute. Ma se la presenza, seppur rarefatta, di memorie poliane già nel Diario, unita alla celebrità del Devisement du monde, fa escludere questa ipotesi, proprio l’ostinata attenzione di Colombo nei confronti di questo libro ci aiuta a capire qualcosa di più su di lui e sulla sua epoca. Da un lato, essa conferma infatti la sua identità di figlio dell’Europa mediterranea, per il quale scoprire il mondo e descriverlo fa tutt’uno con la spinta mercantile che costituisce l’essenza del suo modo di essere. Dall’altro dimostra per quali ragioni di fondo l’Occidente è destinato a restare, per gli europei il luogo privilegiato di un’inesausta ricerca d’Oriente. I miti non si distruggono con facilità, neppure a colpi di viaggi e di cartografia. La triade veneziano-pisano-genovese, che sta alla base del Milione (steso da un pisano su memorie di un veneziano in una prigione genovese) e che colloca un “principe perfetto” − ma orientale − al centro del discorso e il volontario recupero fattone da Colombo consentono, infine, di sovrapporre, senza confonderle, le figure dei due protagonisti. In quest’unione virtuale tra Polo e Colombo si consuma il passaggio dall’Europa mediterranea a quella atlantica. Tutto questo è testimoniato da una semplice lettera privata. Non a caso, però, uno dei due corrispondenti è Cristoforo Colombo.

Bibliografia

J. Gil – C. Varela (ed.), Cartas de particulares a Colόn y relaciones coetáneas, Madrid 1984.

G. Airaldi, Dall’Eurasia al Nuovo Mondo. Una storia italiana (secc. XI-XVI), Genova 2007.